#tiburzicoldcase
La morte del gregario Pastorini
Sorte tragica Tiburzi la riservò anche al suo gregario, Vincenzo Pastorini. “Nella macchia d’Ischia di Castro i due famigerati briganti, il dì 25 di Marzo 1879, vennero alle prese tra loro e, dopo essersi scambiate ingiurie a vicenda, alle quali seguì una specie di sfida, il Tiburzi tirò più colpi di rivoltella contro il Pastorini e lo rendeva cadavere”. Pastorini, sfuggito all’imboscata dei Reali Carabinieri alla grotta del Paternale, ove trovò la morte Davide Biscarini e Tiburzi riuscì a salvarsi scappando in mutande, era solito beffeggiare il Re del Lamone per quella fuga semiadamitica. Tiburzi mal sopportava lo scherzo; lo riteneva un’offesa al suo prestigio.
Pastorini Vincenzo, conosciuto sotto il nome di Cenciarello era nato in Viterbo nel 1819, ma da piccino se ne era venuto a Latera come porcaro. Ma in breve datosi al furto e né piacendogli scontare le pene alle quali era condannato, giovanissimo prese le vie della macchia. I briganti che a quei tempi, dopo la comparsa del Biagini e del Tiburzi, fiorivano, accolsero il novello ospite, il quale dopo vari anni di utili servigi, ebbe tronca la vita dagli stessi suoi amici. Fatti cha abbiano un carattere speciale, sorti dall’indole feroce del brigante non si rinvengono, esso fu sempre l’aiutante in ogni gesta degli altri briganti, ed in special modo quando spiccavano la ferocia e il brutale.
La macchia del Lamone servì di stanza alla temuta banda, in breve si impratichirono dei luoghi in una maniera tale, da eludere costantemente la vigilanza più esperta degli agenti della forza pubblica. Al suo compagno Biscarini, poco piaceva la vita sedentaria e innocua che i vecchi Tiburzi e Biagini menavano, e fece quindi conoscere che aveva bisogno di sfogare la sua bollente passione, proponendo quindi ai compagni d’intraprendere una serie di ricatti e di estorsioni tanto per incominciare a fare qualche cosa e non stare tutto l’anno senza fare nulla.
Il Pastorini era dello stesso parere del suo compagno, ma non così Tiburzi e Biagini che preferivano come più vecchi starsene, scrupolosi osservatori delle loro gesta, nella macchia a tutelarne l’inviolabilità per parte di qualcuno che avesse avuto la brutta idea di avventurarvisi.
Nei monti di Castro, nel punto ove la macchia rivaleggia colle foreste vergini d’America, e specialmente nei pressi di S. Barbara, i briganti Biagini Domenico, Tiburzi Domenico, Basili Giuseppe e Pastorini Vincenzo, erano intenti a spolpare un capretto arrostito.
Terminato il pasto, principiarono una partita alla morra. Il giuoco ebbe breve durata, causa un’incidente sorto fra Tiburzi e Pastorini. Dal giuoco il diverbio passò alla personalità fra un vulcano d’improperie vomitate d’ambo le parti, fino al punto che il Tiburzi urlasse:
«Mavalà, carogna! sei un vigliacco! Va a fare il beccamorto non già il brigante! Ci fai disonore… Vattene! Porco…»
«Carogna io!? Vigliacco!… Ah! per… prendi il revolver se hai coraggio!… Vieni qua!…»
E senza terminar la frase, alzò in aria di sfida il revolver. II Tiburzi alla sua volta die’ di piglio all’arma, e prima che Pastorini lo prendesse di mira, lasciò partire un colpo. Dopo uno scambio di quattro colpi, il Tiburzi rimaneva ferito al braccio sinistro. Visto il sangue divenne cieco furibondo, e scagliatosi sul Pastorini gli sparò a bruciapelo un colpo fracassandogli il cranio.
Questa uccisione a differenza delle altre fu dai briganti tenuta occulta, senza che se ne possa dedure il perché. Il cadavere del Pastorini venne trascinato in una valle del torrente Elsa, e sulla di cui sponda scelto il punto del terreno più avvallato a ridosso di una carbonaia, scavatavi una fossa ve lo seppellirono, coprendolo poscia con terra e grosse pietre miste a molte frasche.
Sei mesi dopo stante le insistenze dell’ispettore di P. S. Fazio, un confidente si decise a raccontare l’uccisione di Cenciarello. L’ispettore unitamente al confidente e a quattro carabinieri, si portarono nella località per rinvenirvi il cadavere, ma le ricerche riuscirono infruttuose, poiché il confidente
non rammentava il punto preciso dove il cadavere era stato sotterrato.
Un mese dopo, mediante altro confidente, dopo infinite ricerche, potettero trovare il punto preciso ove Pastorini era sepolto.
Il cadavere, quantunque sotterrato da oltre sei mesi, s’era conservato sì bene da sembrare di qualche settimana. Portato a Farnese entro un sacco, vi giunse in perfetta decomposizione.
Tratto da: autore anonimo, Il Brigantaggio nel Viterbese, 1893
Verso le sette mi fermai davanti alla casetta, detta la capanna di Nardo, famosa come quella dove capitavano più di frequente Biagini, Tiburzi e Fioravanti per mangiare, bere e divertirsi.
È una casupola di legno, coperta di lavagna, d’aspetto meschino, ma situata in un punto molto favorevole, da cui si possono esplorare tutti i dintorni.
Dietro a questa capanna veniva sepolto segretamente nel 1879 il cadavere di Vincenzo Pastorini, detto Cenciarello o Femo, altro famoso brigante, d’anni 30, nativo di Viterbo, cresciuto a Latera, già compagno di Biagini, Tiburzi e Basili, ucciso il 25 marzo di quell’anno a revolverate dal Tiburzi, in seguito a un diverbio.
La voce di quella uccisione si era sparsa a Farnese, Valentano e negli altri comuni vicini nel mese di
maggio, ma il fatto non si poté accertare dalle autorità prima del mese di agosto, senza però che si sapesse dove fosse il cadavere. Fu un confidente, a cui l’ispettore Fassio a Valentano faceva larghe promesse se riusciva a far catturare i quattro briganti allora al potere, Biagini, Tiburzi, Pastorini e Basili, che si lasciò sfuggire le parole:
«Oh! In quanto al Pastorini, è morto da un pezzo!»
Dopo qualche giorno lo stesso confidente si decise a raccontare che l’uccisione era avvenuta il giorno dell’Annunziata (25 marzo) mentre la banda si trovava a mangiare nella località detta Poggio Fuoco, a quindici chilometri da Manciano, per una contesa:
«Tiburzi e Pastorini avevano afferrato i revolvers e, scambiatisi vari colpi, il primo rimaneva ferito in un braccio e il secondo cadeva colpito mortalmente in mezzo alla fronte e al torace».
Il suddetto confidente non sapeva esattamente dove il cadavere fosse sepolto: indicò una località dove il 25 luglio si fecero inutili ricerche. Da un altro confidente, con molte difficoltà, fu indicato poi il luogo preciso; si seppe anche che il cadavere era stato sepolto parecchi giorni dopo il fatto e solo perché con le sue esalazioni dava fastidio ai briganti quando passavano per Poggio Fuoco.
Tratto da: Adolfo Rossi, Nel regno di Tiburzi, 1893
Per procurarsi denaro fresco i quattro briganti decisero di procedere al sequestro del possidente Francesco Majoli di lschia di Castro. Nel pomeriggio del 6 marzo 1879 lo appostarono nel folto
della macchia detta Cajoli, in territorio di Ischia, ove sapevano che il loro bersaglio sarebbe transitato per recarsi a casa dopo la consueta visita alle sue proprietà. A fucili spianati, Basili, Pastorini, Biagini e Tiburzi gli si pararono davanti e, mentre uno di essi tratteneva per la capezza la cavalcatura, Tiburzi si qualifico, spiegò al malcapitato i termini della questione e lo invitò a scendere da cavallo e a seguirlo. Il possidente, mezzo morto di paura, ubbidì. Giunti nel folto della macchia,
trascorsero la notte in una capanna di carbonai. La mattina di buon’ ora, Tiburzi ordinò alla vittima di scrivere un biglietto alla famiglia con la richiesta di quattromila lire per i briganti. Pastorini s’incaricò di farlo recapitare. I parenti se ne guardarono bene dall’avvisare i carabinieri, ma si diedero un gran da fare per mettere insieme 3.990 lire che dopo alcuni giorni fecero depositare nel posto indicato dai briganti e da questi ritirati con molta circospezione.
Qualche ora dopo il ritiro della somma, il Majoli fu liberato e potè raggiungere felicemente la sua casa; non rinunciò tuttavia a denunciare il fatto alla Benemerita.
Ne segui un processo che si concluse il 20 settembre del 1880 con la condanna a 20 anni sia per Tiburzi che per Biagini e con la dichiarazione di estinzione del reato per Basili e Pastorini, nel frattempo morti ammazzati dai loro stessi compari.
Tratto da: Angelo la Bella, Rosa Mecarolo, Tiburzi senza leggenda, Realistica ricostruzione della vita del brigante attraverso il maxiprocesso ai suoi ‘manutengoli’, 1995
Omicidio Pastorini
Era di marzo e sotto il pergolato
stava la famigliola in allegria,
c’è Pastorini con Tiburzi al lato
a godersi la buona compagnia.
Dopo bevuto assai e ben mangiato,
il primo fa battute d’ironia,
e ricorda il compagno al Paternale
che in mutande scappò come un cinghiale.
Ridono le fanciulle, è naturale,
pur se in passato l’hanno già sentito,
non altrettanto fa Tiburzi e assale
con ingiurie il compagno troppo ardito.
Più sopra non sopporta di costui il triviale
scherno, ogni volta sempre più ingrandito,
ne va il buon nome, la reputazione,
s’alza e lo sfida a singolar tenzone.
L’un contro l’altro senza esitazione,
si fanno spazio, tacciono gli astanti,
con la pistola in mano in posizione
si guardano in cagnesco i due briganti.
Di Pastorini è la prima esplosione
Domenichino ferisce davanti,
ma questo di rimando in piena fronte
lo colpisce e lo manda da Caronte.
Tratto da: Giuseppe Bellucci, Da Cellere a Capalbio.
Fatti e misfatti del brigante Domenico Tiburzi. Storia in ottava rima, 2017