Il territorio
DalSettecento e con un’insistenza crescente nel secolo successivo, la Tuscia si affermò come una meta possibile dei turisti nord europei istruiti che scendevano in Italia alla ricerca dei resti dell’Antico nel paesaggio italiano.
Per molti di loro l’intento era di rendere visibile ciò che di esaltante avevano studiato sui banchi di scuola. Per altri l’obiettivo era più sentimentale e romantico:
percepire il pathos della Storia, accostarsi ad una civiltà perduta, ripercorre le sue tracce, da visitatori delle tombe etrusche, da pellegrini che si aggiravano tra le rovine di città sepolte. Un’alterità seducente rispetto al loro presente urbano.
Da una parte si offriva allo sguardo di questi viaggiatori una natura imponente e selvaggia, a volte mite, dolce, feconda, a volte torva e inquietante.
Dall’altra un’umanità rappresentata in posture, in atteggiamenti, in costumi locali e di mestieri che ricalcano stampe di scene di genere tanto sono convenzionali, prevedibili.
Chiaramente tra le figure pittoresche del paesaggio italiano primeggia ormai dalla fine del Settecento il brigante.
Ma è la Maremma ad essere associata con più assiduità al brigantaggio di cui il Museo di Cellere offre lettura. Una regione storico-geografica a cavallo tra alto Lazio e bassa Toscana, dai confini costantemente contesi e ridefiniti, che sul finire dell’Ottocento fu lo scenario della vita e delle gesta di Tiburzi e della sua banda.
La Maremma di quegli anni era una plaga afflitta da miseria e da una insiodiosissima e micidiale malattia: la malaria, il cui vettore (la zanzara anofele) prosperava negli acquitrini costieri generatisi a seguito della rovina dell’antico sistema di irreggimentazione delle acque praticato dai romani e venuto meno nel corso del medioevo. Una porzione di territorio che sullo scorcio del XIX secolo, almeno agli occhi di nobili ed artisti, sulla spinta delle suggestioni culturali dell’epoca, sull’onda lunga del romanticismo, appare un luogo selvaggio e vergine che assume talvolta un tono epico. È l’altrove interno, l’esotico di casa.
Un mondo incontaminato e selvaggio a poche ore di viaggio dai maggiori centri urbani dell’epoca (Roma, Firenze, Siena) dove sperimentare l’incontro con un mondo ostile, per certi versi misterioso. E dove andare a caccia. La caccia praticata dai signori, documentata da fotografi e pittori, attività apparentemente frivola e occasione di incontro mondano, si rivela come il tratto caratteristico principale di uno stile di vita in cui si produce il rito della comunione con l’Eden primigenio, primitivo e selvaggio, lontano – tanto per rimanere in Toscana – dalle idilliache spiagge versiliane.